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sabato 18 maggio 2024 | ore 16:44

La sicurezza dell'assistenza domiciliare

C’è una categoria di lavoratori fondamentale per la cura dei pazienti affetti da malattie croniche. Sono le infermiere e gli infermieri dell'assistenza domiciliare.
Salute - Assistenza domiciliare (Foto internet)

C’è una categoria di lavoratori che sono fondamentali per la cura dei pazienti affetti da malattie croniche. Sono le infermiere e gli infermieri che prestano servizio di assistenza domiciliare. Lo sono ancor di più in questo periodo di emergenza sanitaria, soprattutto dopo le recenti scelte di curare i pazienti COVID–19 positivi a domicilio. Le loro condizioni di sicurezza sono rispettate? Purtroppo ci sono stati anche qui gravi problemi, soprattutto all’inizio dell’emergenza. I Dispositivi di Protezione Individuale sono carenti e vengono recuperati e forniti agli operatori direttamente dagli enti gestori che operano per conto della ATS Milano su tutto il territorio meneghino. Se mascherine FFP2 ed occhialini ci sono, anche se in misura limitata; esistono problemi per reperire le tute protettive idrorepellenti. Quelle che consentono di avvicinarsi ad un paziente senza correre il rischio di essere contagiati. Le tute protettive sono monouso e vanno smaltite al termine di ogni servizio. Si sono registrati casi di operatori che effettuano servizio di ADI (Assistenza Domiciliare Integrata) positivi al Coronavirus, ma è impossibile quantificarli con esattezza perché l’assistenza domiciliare non è organizzata in nessuna Regione. Eppure svolgono un ruolo importantissimo nell’ambito del sistema sanitario. Sono coloro che si recano a casa del paziente e avviano, insieme a lui e alla famiglia, un percorso. In media prestano servizio presso una decina di persone al giorno e possono essere facilmente esposti al contagio se non vengono adottate tutte le precauzioni. Oltre a poter diventare loro stessi veicolo di trasmissione del virus. Se pensiamo che gli operatori, nella sola città di Milano, sono diverse centinaia è facilmente immaginabile come la bomba potrebbe esplodere. Gli infermieri che hanno chiesto informazioni a Regione Lombardia sulla possibilità di ottenere dei dispositivi di protezione individuale si sono sentiti rispondere che al momento le forniture di dispositivi, purtroppo, non risultano sufficienti per far fronte a tutte le esigenze dell’intero sistema sociosanitario. Beatrice Mazzoleni è la segretaria della Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Infermieristiche (FNOPI) e ha spiegato: “Ci auguriamo che con la previsione dell’infermiere di famiglia e di comunità contenuta nel nuovo Patto per la salute 2019-2021 si riesca a risolvere questo problema che al di là di COVID coinvolge i malati cronici, gli anziani, i non autosufficienti”. Utile, a questo punto, fare un paragone con gli infermieri che prestano servizio nelle RSA. “Un dato che mostra la situazione – continua Mazzoleni - è che il 32% dei decessi registrati tra gli infermieri (ad oggi 28 decessi) sono avvenuti su professionisti al lavoro nelle RSA, dove i dispositivi di protezione sono carenti davvero e non solo per gli operatori, ma anche per gli ospiti, tanto è vero che l’Istituto Superiore di Sanità ha avviato uno specifico rilevamento proprio in queste strutture. Tardi purtroppo rispetto alle situazioni che si sono verificate”. Negli ultimi giorni si è verificata la differenza tra il numero di decessi assoluti in determinate zone e quello dello stesso periodo dell’anno precedente, ci si è accorti che i conti non tornavano rispetto ai decessi registrati per COVID e che proprio nelle RSA c’era un fortissimo incremento di decessi. Non c’è tempo da perdere. Se si vuole evitare che il virus si diffonda sempre di più è fondamentale mettere a disposizione di tutti gli operatori, anche e soprattutto degli infermieri che svolgono assistenza domiciliare tutto quello che a loro serve per lavorare in sicurezza. Ma non solo. Le stesse protezioni vanno fornite ai cargiver. Le persone che con il paziente cronico convivono e che vanno dai familiari più stretti alle badanti. Persone che entrano, inevitabilmente in contatto, con fonti possibili di contagio che possono trasmettere al loro familiare o alla persona che assistono. Marco Ferrantino è un infermiere che svolge servizio di assistenza domiciliare nella città di Milano. E’ esperto e svolge con scrupolo il suo lavoro da diversi anni. Pochi giorni fa ha vissuto un’esperienza che può essere presa come esempio del rischio che si sta correndo. Si è recato presso una donna di 85 anni dimessa 20 giorni prima dal Policlinico di San Donato. Da alcuni giorni accusava febbre alta, saturazione attorno all’80% e frequenza cardiaca accelerata, oltre le 110 pulsazioni al minuto. Chiari sintomi di un sospetto contagio da COVID–19. Si attiva per la normale procedura, contattando il medico di base che, non avendo i DPI, preferisce evitare il contatto con la paziente. Passano due giorni e la situazione non migliora. Finché la donna viene ricoverata, sottoposta a tampone risultato positivo al Covid - 19 e, dopo 4 giorni, muore in ospedale. “Quando io sono entrato in contatto con la signora – spiega Ferrantino – non avevo idea di cosa potesse avere e, in uso, avevo solo guanti e mascherina. Inoltre, accanto a lei, c’erano la sorella, anch’essa anziana e la badante che usciva di casa per incontrare la sua famiglia o per fare la spesa. Ovviamente nessuno di loro aveva in dotazione dispositivi di protezione. Tutti noi potevamo diventare veicolo di contagio. Dobbiamo poter lavorare in sicurezza, per i nostri pazienti, per i loro familiari, per noi stessi e per la collettività”.

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