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martedì 16 aprile 2024 | ore 09:16

Cesare Pavese... e la Democrazia

"A malincuore non abbiamo potuto unirci in corteo per festeggiare questa data così significativa per il nostro Paese e per la Democrazia".
Inveruno - 25 aprile con Cesare Pavese

Il 75esimo anniversario della Liberazione quest’anno è stato celebrato in maniera differente. A malincuore non abbiamo potuto unirci in corteo per festeggiare questa data così significativa per il nostro Paese e per la Democrazia. Vista la situazione critica, anche i nostri giovani studenti non avranno avuto molte opportunità per approfondire dal punto di vista storico, questa importante ricorrenza, indissolubilmente legata alla parola Libertà. A loro e a noi qualche meraviglioso brano estrapolato dal celebre romanzo di Cesare Pavese, La casa in collina”. Buona festa della Liberazione a tutti!

Un libro che i professori fanno leggere ai ragazzi e che oggi dovremmo leggere tutti. Una breve, suggestiva riflessione sulla guerra e sulle sue conseguenze.

…niente è accaduto. Sono a casa da mesi e la guerra continua. Anzi, adesso che il tempo si guasta, sui grossi fronti gli eserciti sono tornati a trincerarsi, e passerà un altro inverno, rivedremo la neve, faremo cerchio intorno al fuoco ascoltando la radio. Qui sulle strade e nelle vigne la fanghiglia di novembre comincia a bloccare le bande; quest’inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Se poi, come dicono, verrà molta neve, verrà anche quella dell’anno passato e tapperà porte e finestre, ci sarà da sperare che non disgeli mai più.

Sui colli, sul ponte di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari, spari isolati, come un tempo in stagione di caccia, oppure rosari di raffiche. Ora si vanno diradando. Quest’è davvero la vita dei boschi come si sogna da ragazzi. E a volte penso che soltanto l’incoscienza dei ragazzi, un’autentica, non mentita incoscienza, può consentire di vedere quel che succede e non picchiarsi il petto. Del resto gli eroi di queste valli sono tutti ragazzi, hanno lo sguardo cocciuto e diritto dei ragazzi. E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri, noi non più giovani, noi che abbiamo detto “Venga dunque se deve venire”, anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto, chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra, né i vigliacchi, né i tristi, né i soli.

Malgrado i tempi, qui nelle cascine si è spannocchiato e vendemmiato. Non c’è stata, si capisce, l’allegria di tanti anni fa: troppa gente manca, qualcuno per sempre. Dei compaesani soltanto i vecchi e i maturi mi conoscono, ma per me la collina resta tuttora un paese d’infanzia, di falò, di scappatelle e di giochi.

Adesso che la campagna è brulla, torno a girarla; salgo e scendo la collina e ripenso alla lunga illusione da cui ha preso le mosse questo racconto della mia vita. Dove questa illusione mi porti, ci penso sovente in questi giorni: a che altro pensare? Qui ogni passo, quasi ogn’ora del giorno, e certamente, ogni ricordo più inatteso, mi mette innanzi ciò che fui, ciò che sono e avevo scordato. Se gli incontri e i casi di quest’anno mi ossessionano, mi avviene a volte di chiedermi: “Che c’è di comune tra me e quest’uomo che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore?”. Non è che non provi una stretta se penso a chi è scomparso, se penso agli incubi che corrono le strade come cagne, mi dico perfino che non basta ancora, che per farla finita l’orrore dovrebbe addentarci, addentare noi sopravvissuti, anche più a sangue, ma accade che l’io, quell’io che mi vede rovistare con cautela i visi e le smanie di questi ultimi tempi, si sente un altro, si sente staccato, come se tutto ciò che ha fatto, detto e subito, gli fosse soltanto accaduto davanti. Mi chiedo se sarò mai capace di uscirne.

E’ qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio. La guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato.

Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto, il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce, si tocca con gli occhi, che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chieda ragione.

Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi.

Io non credo possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

Da “La casa in collina” di Cesare Pavese

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