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venerdì 17 maggio 2024 | ore 09:26

'Habemus Papam'

Passato senza riconoscimenti al Festival di Cannes appena concluso, l'ultima opera di Nanni Moretti è una riflessione tutt'altro che scontata sulla gravosità di un ruolo (pubblico) e sul complesso sociale che ne inibisce l'ammissione
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A soli cinque anni da The Queen, il capolavoro di Stephen Frears che sezionava – faceva a pezzi? – i Windsor alle prese con il lutto più inaspettato e discusso della storia nazionale inglese, Moretti ne riprende in apparente sottotraccia il piglio voyeuristico, lo proietta sulla retina dell’occhio indiscreto e ne fa una variazione sul tema. Il cardinale Melville – l’immenso Michael Piccoli – viene eletto al soglio pontificio. Pochi secondi prima di rivelarsi ai credenti libera un grido che è allo stesso tempo un pungolo per farsi forza e rimandare la pubblica presentazione a tempi di più matura consapevolezza. Un grido ruvido, pesante, smodato, eccessivo fino a diventare intollerabile, perché irrimediabilmente osceno. È un gesto liberatorio, impossibile da metabolizzare, perché indigeribile rimane la potenzialità espressiva del grottesco nel milieu socio-politico – e quindi mediatico – del nostro tempo. Sta tutta qui la forza di un film come Habemus Papam. Nella capacità di domandarci sotto quali prospettive appaia oggi la goffa tragedia del fuoricampo. E quindi di riflettere su quali siano i confini della rappresentabilità, oltre i quali non vi è che beffa e scalpore. A Moretti non interessa granché quindi – o almeno non soltanto è interessato a – fermarsi alla messa in scena materiale dell’osceno – valga da campione la ripresa del corpo del papa durante la visita medica – ma decide di andare oltre. Supera l’idea che l’irrappresentabile sia solo questione di ”immagini proibite” – oltrepassa in un certo senso l’istanza pornografica – o di ridicola cacofonia – l’urlo sguaiato del cardinale Melville segna di riflesso l’opera meno “dialogata” di Moretti, in cui la logorrea come cifra autoriale viene esasperata durante la partita a pallavolo, finendo per diventare una strizzata d’occhio dal sapore citazionistico, o meglio autocelebrativo considerata la personalità del regista… – per rivelare che forse il rimosso di fondo si trova da tutt’altra parte. Oggi, un po’ come sempre, il vero fuoricampo sta forse davvero nella volontà di mettere in piazza – oltre che in scena – la debolezza del rimandare, l’insufficienza delle potenzialità, le gravose incombenze di un ruolo che non percepiamo come nostro. Su tutto questo ci interroga Habemus Papam. Ci racconta la storia di un uomo alle prese con l’inadeguatezza della parte a cui è stato destinato e soprattutto del percorso che lo conduce alla forza di dichiararlo al mondo. Michael Piccoli si presenta sul pulpito e infrange il falso specchio del fuoricampo con il tabù irrisolto dell’irrappresentabilità mediatica – e quindi dichiarata – del leader, della sua inadeguatezza e vulnerabilità. È il trionfo responsabile della dignità di un condottiero incompiuto. Perché «c’è chi nasce per condurre e chi per essere condotto».

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