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sabato 20 aprile 2024 | ore 12:17

Sul 'treno' COVID-19...

L'Amministrazione di Inveruno ha ricevuto una lettera da una concittadina: Valeria Garavaglia, professione infermiera in sala operatoria, oggi trasferita in terapia intensiva.
Salute - Infermieri (Foto internet)

L'Amministrazione di Inveruno ha ricevuto in questi giorni una lettera a cuore aperto da una loro concittadina: Valeria Garavaglia, professione infermiera in sala operatoria, ma dall'8 marzo trasferita nel reparto di terapia intensiva con i pazienti COVID-19 più gravi presso la clinica Humanitas di Rozzano. Una lettera che non si focalizza su quanto succede in reparto (dolore, sofferenza, malattia... queste cose le sappiamo già), ma sulle emozioni che tutto questo può suscitare, sulle lezioni che si possono conservare nel cuore. E che hanno il potere di cambiarci. Eccola, la pubblichiamo in versione integrale, così come ce l'hanno girata: speriamo che possa far bene all'anima anche a voi, come ne ha fatto a noi.

SUL 'TRENO' COVID-19...

“Mi è stato chiesto di mettermi alla guida di un treno con mille persone a bordo e di farlo volare a 300 all'ora. Avete mai guidato un treno? Chiudete gli occhi e immaginate che emozioni si possono provare ad avere nelle proprie mani la responsabilità delle vita di mille persone. Da un giorno all'altro mi è stato chiesto questo: “Prendi tutti gli strumenti che (non) hai, lanciati in terapia intensiva coi malati COVID-19, assisti e fai tutto quello che puoi”. Ma io non lo so guidare questo treno... Non c'è stato né tempo ne spazio per pensare. La frustrazione di non essere all'altezza e la paura di sbagliare mi accompagna in ogni minuto del mio operato in ospedale. La fatica dei presidi di protezione dalle maschere alle tute che non ti consentono per tutto il turno di poter bere o mangiare qualcosa o di andare in bagno... Non puoi fermarti. Non puoi cedere. Devi guidare questo treno senza indugio. Negli attimi di lucidità guardo le persone nei letti e mi accorgo che dietro a quel tubo che consente loro di respirare e quelle flebo che consentono loro di stare in vita c'è un papà. Una mamma. Un marito. Un figlio di qualcuno che al di fuori, a casa, attende con disperata speranza una notizia positiva. Perché ai parenti non sono concesse visite. Solo telefonate da parte degli operatori sanitari che descrivono miglioramenti. Procedure. O infelici notizie. Ma appena si fa spazio questa lucidità, cerco di metterla da parte e tornare operativa. Senza cedere e senza fermarmi. Ci sarà spazio forse un giorno per rielaborare tutte queste travolgenti emozioni. Per metabolizzare gli innumerevoli decessi. La frustrazione di non farcela e la difficoltà nel vivere le infelici notizie date ai parenti. L'unica debolezza che mi concedo è il pianto che ogni tanto si fa strada e arriva improvviso e dirompente, lo vivo e lo lascio andare. E poi arriva una guarigione. E poi un'altra. Sinonimo che nonostante tutto il nostro lavoro ha un senso. Ogni infermiere e ogni medico contribuisce chi con la propria professionalità, chi con la solarità del proprio carattere a rendere la squadra più forte. Com'è possibile che persone che non hanno mai lavorato insieme e che non hanno mai svolto un'attività in terapia intensiva riescano a creare un gioco di squadra così solido ed efficace? Eppure è ciò che magicamente sta accadendo. Si lavora stanchi e determinati. Con le proprie paure ma uniti e insieme. E nel miracolo che si sta compiendo tra le mura degli ospedali mi accorgo di ciò che altrettanto miracolosamente si sta compiendo al di fuori. Sto vedendo quanto ognuno senta l'impulso a “fare del bene”. Stiamo desiderando il bene dell'altro, tramutandolo in azione. Agli inizi di questa pandemia ho attraversato la rabbia e la frustrazione di sentirmi abbandonata in questo processo di aiuto in cui vedevo noi operatori sanitari in prima linea e al di fuori l'inconsapevolezza e l'egoismo di chi voleva continuare a svolgere la propria vita a discapito dell'altro. Ma il quadro è cambiato. Ha assunto colori inaspettati. Ci siamo fermati. Abbiamo interrotto la catena sterile della frenesia per lasciare spazio al desiderio di contribuire a donare all'altro un centimetro di felicità. Questo desiderio di fare del bene sta coinvolgendo tutti. La mia mamma ha cucito mascherine per le amiche. La mia amica ogni giorno scrive parole di positività sul proprio blog. Una persona a me cara offre la propria professionalità attraverso un ascolto telefonico gratuito per consentire a chi ha bisogno di scambiare due parole di conforto. Un'altra amica con fatica ma costanza rispetta i decreti, trasmettendomi il suo buon umore nonostante le privazioni a cui siamo sottoposti... Anche questo è un grande gesto d'amore verso gli altri. Se rispettate i decreti siate fieri di voi. Tante persone hanno donato torte, biscotti, pizze ai reparti di terapia intensiva del mio ospedale. Le forze dell'ordine e i vigili del fuoco hanno tolto il cappello e ci hanno pubblicamente ringraziato per queste lunghe settimane di lavoro. La mia sindaca si è attivata con collaboratori e volontari nelle attività di sostegno per i propri cittadini attraverso la collaborazione dei commercianti del paese. State accudendo anche la mia famiglia. Come potrei non dirvi grazie? Si sta paradossalmente creando una meravigliosa catena d'amore di fronte a questa drammatica situazione. E allora mi sento di dirlo: se state facendo del bene, fateci caso a cosa provate. È un'emozione esplosiva e profonda che vi renderà persone migliori. Io ho avuto la fortuna di “farci caso” da quando ho iniziato la mia professione di infermiera. So che ci sarà qualcuno che continuerà a uscire ogni giorno mettendo in pericolo se stessi e gli altri, chi non rispetterà i decreti sentendosi furbo o ci sarà chi vivrà questo momento pensando solo alle privazioni e lamentandosi in ogni momento. A loro va il mio compatimento, perderanno l'occasione di vivere un'emozione travolgente: quella che si crea facendo del bene. Verso se stessi e verso gli altri. In ultimo un pensiero va al mio compagno di vita. Lui che è stato in prima linea in Africa attraverso l'esperienza del volontariato, dove ha vissuto la vera guerra e la malattia. Il suo esempio, la sua capacità di ascoltarmi e il suo esserci ogni giorno mi danno gran coraggio. E mi fa dire che sto facendo la cosa giusta. E attendo con pazienza il momento in cui lo riabbraccerò. Quando fate del bene, quando amate, fateci caso a cosa provate. È la forza più incredibile che si può provare e che ci permetterà di affrontare a testa alta questa situazione. “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”: balliamo continuando ad amare. Insieme”.

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