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sabato 20 aprile 2024 | ore 14:36

Papa Francesco: tra xenofobia e scisma

Il viaggio di ritorno del Santo Padre Papa Francesco dall'Africa ha permesso a molti giornalisti di dialogare con il Pontefice su molte questioni aperte del mondo.
Attualità - Papa Francesco

Il viaggio di ritorno del Santo Padre Papa Francesco dall'Africa ha permesso a molti giornalisti di dialogare con il Pontefice su molte questioni aperte del mondo contemporaneo. Tanti spunti, occasioni di dibattito, che hanno aperto una riflessione più ampia sui problemi interni alla Chiesa, sull'Africa, sul futuro dell'Europa e sugli atteggiamenti dei cristiani.

JULIO MATEUS MANJATE (Noticias, Mozambico)

Grazie, Santo Padre. Anzitutto ringrazio per questa opportunità di parlare a nome dei colleghi della stampa del Mozambico che accompagnano il Santo Padre. Nel passaggio in Mozambico Lei si è incontrato con il Presidente della Repubblica e con i Presidenti dei due partiti presenti in Parlamento. Mi piacerebbe sapere qual è, dopo questi colloqui, la sua aspettativa per il processo di pace, e quale messaggio vorrebbe lasciare al Mozambico. E due brevi commenti, uno sulla questione della xenofobia, che si sta verificando in Africa, e anche sulla questione della gioventù, l’impatto delle reti sociali nell’educazione dei giovani.

PAPA FRANCESCO:

Il primo punto, sul processo di pace. Oggi si identifica il Mozambico con un lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e bassi, ma alla fine sono arrivati a quell’abbraccio storico. Io mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare lo sforzo affinché questo processo di pace vada avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me. Questo motto è chiaro, non va dimenticato. È un processo di pace lungo perché ha avuto una prima fase, poi è caduto, poi un’altra fase… E lo sforzo dei capi dei partiti avversari, per non dire nemici, di andare a incontrarsi tra loro è stato anche uno sforzo pericoloso, alcuni rischiavano la vita… Ma alla fine siamo arrivati. Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno aiutato in questo processo di pace. Dall’inizio, in un caffè di Roma: c’erano alcune persone che parlavano, c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, che sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre… È cominciato lì... E poi, con l’aiuto di tanta gente, anche della Comunità di Sant’Egidio, sono arrivati a questo risultato. Noi non dobbiamo essere trionfalistici in queste cose. Il trionfo è la pace. Noi non abbiamo il diritto di essere trionfalistici, perché la pace è ancora fragile nel tuo Paese, come nel mondo è fragile, e la si deve trattare come si trattano le cose appena nate, come i bambini, con molta, molta tenerezza, con molta delicatezza, con molto perdono, con molta pazienza, per farla crescere così che diventi robusta. Ma è il trionfo del Paese: la pace è la vittoria del Paese, dobbiamo riconoscere questo.

E questo vale per tutti i Paesi, per tutti i Paesi che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Io mi dilungo un po’ su questo tema della pace perché mi sta a cuore. Quando c’è stata la celebrazione, alcuni mesi fa, dello sbarco in Normandia, sì, è vero, c’erano i capi dei governi a fare memoria di quello che era l’inizio della fine di una guerra crudele, e anche di una dittatura disumana e crudele come il nazismo e il fascismo… Ma su quella spiaggia sono rimasti 46mila sodati! Il prezzo della guerra! Vi confesso che quando sono andato a Redipuglia per il centenario della Prima Guerra mondiale a vedere quel memoriale, ho pianto. Per favore, mai più la guerra! Quando sono andato ad Anzio a celebrare il giorno dei defunti, nel cuore sentivo così… Ma dobbiamo lavorare per creare questa coscienza, che le guerre non risolvono niente, anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono il bene dell’umanità. Scusatemi di questa appendice, ma dovevo dirlo, davanti a un processo di pace per il quale io prego, e farò di tutto perché vada avanti e vi auguro che cresca forte.

Il problema della gioventù. L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane. Se noi facciamo il paragone con l’Europa, ripeterò quello che ho detto a Strasburgo: la madre Europa è quasi diventata la “nonna Europa”, è invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Ho letto che – non so in quale Paese, ma è una statistica ufficiale del governo di quel Paese – nell’anno 2050, in quel Paese, ci saranno più pensionati che gente che lavora. Questo è tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Penso – è un’opinione personale – che alla radice c’è il benessere. Attaccarsi al benessere: “Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, devo andare a fare turismo, questo, quell’altro… Sto bene così, un figlio è un rischio, non si sa mai…”. Benessere e tranquillità, ma un benessere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è piena di vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato nelle Filippine e a Cartagena in Colombia. La gente con i bambini in alto, ti facevano vedere i bambini: “Questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria”. L’orgoglio. È il tesoro dei poveri, il bambino. Ma è il tesoro di una patria, di un Paese. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale, a Iasci, soprattutto quella nonna che faceva vedere il bambino: “Questo è il mio trionfo…”. Voi avete la sfida di educare questi giovani e di fare leggi per questi giovani. L’educazione in questo momento è prioritaria nel tuo Paese. È prioritario farlo crescere con leggi sull’educazione. Il Primo Ministro di Mauritius mi aveva parlato di questo e diceva che lui ha in mente la sfida di far crescere il sistema educativo gratuito per tutti. La gratuità del sistema educativo: è importante, perché ci sono centri di educazione di alto livello, ma a pagamento. Centri educativi, ce ne sono in tutti i Paesi, ma vanno moltiplicati, perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi sull’educazione. Salute e educazione sono elementi-chiave in questo momento in quei Paesi.

Il terzo punto, la xenofobia. Ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia, ma non è un problema solo dell’Africa. È un problema, è una malattia umana, come il morbillo… È una malattia che viene, entra in un Paese, entra in un continente… E mettiamo muri; e i muri lasciano soli quelli che li costruiscono. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma quello che rimangano dentro i muri rimarranno soli e, alla fine della storia, sconfitti da invasioni potenti. La xenofobia è una malattia, una malattia che si dà delle giustificazioni: la purezza della razza, per esempio, per menzionare una xenofobia del secolo scorso. E le xenofobie a volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici. Ho detto la settimana scorsa, o l’altra, che a volte sento fare dei discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello in Europa… Ma anche voi in Africa avete un altro problema culturale che dovete risolvere. Ricordo che ne ho parlato in Kenya: il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, di avvicinamento fra le diverse tribù per fare una nazione. Abbiamo commemorato il 25° della tragedia del Rwanda poco tempo fa: è un effetto del tribalismo. Ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi e darsi la mano e dire “no al tribalismo, no al tribalismo!”. Dobbiamo dire no. Anche questa è una chiusura, e anche una xenofobia, una xenofobia domestica ma è pure una xenofobia. Si deve lottare contro questo: sia la xenofobia di un Paese con l’altro, sia la xenofobia interna, che nel caso di alcuni luoghi dell’Africa, col tribalismo, ci portano a tragedie come quella del Rwanda, per esempio.

CRISTINA CABREJAS GILES (dell’agenzia spagnola EFE, che celebra ottant’anni di fondazione)

Grazie, Santo Padre, per l’opportunità. Ho due domande. Una privilegiata e una sul tema del viaggio. Se vuole Le faccio quella privilegiata, ci togliamo il dente, chiedo scusa ai colleghi, vorrei soltanto chiedere se mi può rispondere in spagnolo, dopo traduco io, non c’è problema. [in spagnolo] Prima di tutto, diamo per assodato che uno dei suoi progetti per il futuro è venire in Spagna, vediamo se sarà possibile, speriamo! E la domanda che voglio farle: per questi ottant’anni di EFE abbiamo interpellato diverse personalità, leader mondiali, a proposito dell’informazione e del giornalismo, e voglio chiedere a Lei: come crede che sarà l’informazione del futuro?

PAPA FRANCESCO:

Avrei bisogno della palla di cristallo!... Ci andrò in Spagna, se vivo, ma la priorità dei viaggi in Europa è per i Paesi piccoli, poi i più grandi.

Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso a com’era, per esempio, la comunicazione quando ero ragazzo, ancora senza TV, con la radio, col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno, si vendeva di notte con i volontari…; e anche comunicazione orale. Se facciamo il paragone con questa, era un’informazione precaria, e questa di oggi sarà forse precaria rispetto a quella del futuro. Ciò che rimane come costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, e di distinguerlo dal racconto, dal riportato. Una delle cose che danneggia la comunicazione, del passato, del presente e del futuro è ciò che viene riportato. C’è uno studio molto bello, uscito tre anni fa, di Simone Paganini, uno studioso dell’Università di Aachen (Germania) e parla del movimento della comunicazione tra lo scrittore, lo scritto e il lettore. Sempre la comunicazione rischia di passare dal fatto al riportato e questo rovina la comunicazione. È importante che resti il fatto e sempre avvicinarsi al fatto. Anche nella Curia lo vedo: c’è un fatto e poi ognuno lo addobba mettendoci del suo, senza cattiva intenzione, questa è la dinamica. Dunque l’ascesi del comunicatore è sempre di tornare al fatto, riportare il fatto, e poi dire: “la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo”, distinguendo il fatto da ciò che viene riportato. Tempo fa mi hanno raccontato la storia di Cappuccetto Rosso, ma sulla base di ciò che veniva riportato, e finiva con Cappuccetto Rosso e la nonna che mettevano il lupo in pentola e lo mangiavano! Il racconto cambiava le cose. Qualunque sia il mezzo di comunicazione, la garanzia è la fedeltà. “Si dice che” si può usare? Sì, si può usare nella comunicazione ma stando sempre all’erta per constatare l’obiettività del “si dice che”. È uno dei valori che bisogna perseguire nella comunicazione.

In secondo luogo, la comunicazione deve essere umana, e dicendo umana intendo costruttiva, cioè deve far crescere l’altro. Una comunicazione non può essere usata come uno strumento di guerra, perché è anti-umana, distrugge. Poco fa ho passato a padre Rueda un articolo che ho trovato in una rivista, intitolato: “Le gocce di arsenico della lingua”. La comunicazione dev’essere al servizio della costruzione, non della distruzione. E quando la comunicazione è al servizio della distruzione? Quando difende progetti non umani. Pensiamo alla propaganda delle dittature del secolo passato, erano dittature che sapevano comunicare bene, ma fomentavano la guerra, le divisioni e la distruzione. Non so che cosa dire tecnicamente perché non sono ferrato nella materia. Ho voluto sottolineare dei valori ai quali la comunicazione, con qualsiasi mezzo, deve mantenersi sempre coerente.

CRISTINA CABREJAS GILES (seconda domanda)

Ritorniamo al viaggio. Uno dei temi di questo viaggio è stata la protezione dell’ambiente. Ne ha parlato in tutti i discorsi, ha parlato della protezione degli alberi, degli incendi, della deforestazione... In questo momento sta accadendo in Amazzonia. Lei pensa che i governi di queste aree stiano facendo tutto il possibile per proteggere questo polmone del mondo?

PAPA FRANCESCO:

Ritorno sull’Africa. Questo l’ho detto in un altro viaggio. C’è nell’inconscio collettivo un motto: l’Africa va sfruttata. È una cosa inconscia. Noi non pensiamo mai: l’Europa va sfruttata, no. L’Africa va sfruttata. E noi dobbiamo liberare l’umanità da questo inconscio collettivo. Il punto più forte dello sfruttamento, non solo in Africa ma nel mondo, è l’ambiente, la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa, ho ricevuto i cappellani della gente di mare e nell’udienza c’erano sette ragazzi pescatori che pescavano con una barca che non era più lunga di questo aereo. Pescavano con mezzi meccanici come si usa adesso, un po’ avventurieri. Mi hanno detto questo: da alcuni mesi fino ad oggi abbiamo preso 6 tonnellate di plastica. (In Vaticano abbiamo proibito la plastica, stiamo facendo questo lavoro). 6 tonnellate di plastica! Questa è una realtà, soltanto dei mari… L’intenzione di preghiera del Papa di questo mese è proprio la protezione degli oceani, che ci danno anche l’ossigeno che respiriamo. Poi ci sono i grandi “polmoni” dell’umanità, uno in Africa centrale, l’altro in Brasile, tutta la zona panamazzonica; e poi ce n’è un altro, non ricordo dove… Ci sono anche piccoli polmoni dello stesso genere. Difendere l’ecologia, la biodiversità, che è la nostra vita, difendere l’ossigeno. A me fa sperare che la lotta più grande per la biodiversità, per la difesa dell’ambiente, la portano avanti i giovani. Hanno una grande coscienza, perché loro dicono: il futuro è nostro; voi, col vostro, fate quello che volete, ma non col nostro! Incominciano a ragionare un po’ di questo. Credo che essere arrivati all’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono. Poi l’ultimo di Marrakech… Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. Ma l’anno scorso, d’estate, quando ho visto quella foto della nave che navigava al Polo Nord come se niente fosse, ho provato angoscia. E poco tempo fa, alcuni mesi fa abbiamo visto tutti la fotografia dell’atto funebre che hanno fatto, credo in Groenlandia, su quel ghiacciaio che non c’era più, hanno fatto un atto funebre simbolico per attirare l’attenzione. Questo sta avvenendo in fretta, dobbiamo prendere coscienza, cominciando dalle cose piccole. Ma la Sua domanda era: i governanti stanno facendo tutto il possibile? Alcuni di più, alcuni di meno. Qui c’è una parola che devo dire, che sta alla base dello sfruttamento ambientale… (Sono rimasto commosso dall’articolo sul “Messaggero” del 4 settembre, il giorno in cui siamo partiti, dove Franca Giansoldati non ha risparmiato parole, ha parlato di manovre distruttive, di rapacità… Ma questo non solo in Africa ma anche nelle nostre città, nelle nostre civiltà)…La parola brutta, brutta è “corruzione”. Io ho bisogno di fare questo affare, ma per questo devo deforestare, e ho bisogno del permesso del governo, del governo provinciale, nazionale, non so, e vado dal responsabile e la domanda – ripeto letteralmente ciò che mi ha detto un imprenditore spagnolo – la domanda che ci sentiamo fare quando vogliamo che ci approvino un progetto è: “Per me quanto?”, sfacciatamente. Questo succede in Africa, in America Latina e anche in Europa. Dappertutto, quando si prende la responsabilità socio-politica come un guadagno personale, lì si sfruttano valori, si sfrutta la natura, la gente. Pensiamo: “l’Africa va sfruttata”. Ma pensiamo a tanti operai che sono sfruttati nelle nostre società: il caporalato non l’hanno inventato gli africani, l’abbiamo in Europa. La domestica pagata un terzo di quello che si deve, non l’hanno inventato gli africani; le donne ingannate e sfruttate per fare la prostituzione nelle nostre città, non l’hanno inventato gli africani. Anche da noi c’è questo sfruttamento, non solo ambientale, anche umano. E questo è per corruzione. Quando la corruzione entra nel cuore, prepariamoci, perché avviene di tutto.

JASON DREW HOROWITZ (The New York Times, Stati Uniti)

Buongiorno, Santo Padre. Nel volo verso Maputo Lei ha riconosciuto di essere sotto attacco di un settore della Chiesa americana. Ci sono forti critiche da parte di alcuni vescovi e cardinali, ci sono tv cattoliche e siti web americani molto critici, e alcuni dei Suoi alleati più stretti hanno parlato persino di un complotto contro di Lei, alcuni dei suoi alleati nella curia italiana. C’è qualcosa che questi critici non capiscono del Suo pontificato? C’è qualcosa che Lei ha imparato dalle critiche negli Stati Uniti? Un’altra cosa, Lei ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? E se sì, c’è qualcosa che Lei potrebbe fare - un dialogo – per aiutare, per evitarlo?

PAPA FRANCESCO:

Prima di tutto, le critiche aiutano sempre, sempre. Quando uno riceve una critica, subito deve fare l’autocritica e dire: è vero o non vero?, fino a che punto? Dalle critiche io traggo sempre vantaggi, sempre. A volte ti fanno arrabbiare, ma i vantaggi ci sono. Nel viaggio di andata a Maputo è venuto… - sei stato tu a darmi il libro? - qualcuno di voi mi ha dato quel libro in francese… “La Chiesa americana attacca il Papa”, no, “Il Papa sotto l’attacco degli americani” [qualcuno dice: “Come gli americani vogliono cambiare il Papa”]… Ecco questo è il libro. Me ne avete dato una copia. Sapevo di quel libro, ma non l’avevo letto. Le critiche non sono soltanto degli americani, ma un po’ dappertutto, anche in Curia. Almeno quelli che le dicono hanno il vantaggio dell’onestà di dirle. A me piace questo. Non mi piace quando le critiche sono sotto il tavolo e ti fanno un sorriso che ti fa vedere i denti e poi ti pugnalano alle spalle. Questo non è leale, non è umano. La critica è un elemento di costruzione, e se la tua critica non è giusta, tu stai pronto a ricevere la risposta e fare un dialogo, una discussione, e arrivare a un punto giusto. Questa è la dinamica della critica vera. Invece la critica delle “pillole di arsenico”, di cui parlavamo, di quell’articolo che ho dato a padre Rueda, è un po’ gettare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi, che non vogliono sentire la risposta alla critica. Una critica che non vuole sentire risposta è un gettare la pietra e nascondere la mano. Invece una critica leale: “Io penso questo, questo e questo”, ed è aperta alla risposta, questo costruisce, aiuta. Davanti al caso del Papa: “Questa cosa del Papa non mi piace”, gli faccio la critica, aspetto la risposta, vado da lui, parlo, faccio un articolo e gli chiedo di rispondere, questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non voler bene alla Chiesa, è andare dietro a un’idea fissa: cambiare il Papa, o fare uno scisma, non so. Questo è chiaro: una critica leale è sempre ben accetta, almeno da me.

Secondo, il problema dello scisma: nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Vaticano I, l’ultima votazione, quella dell’infallibilità, un bel gruppo se n’è andato, si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i Vetero-cattolici per essere proprio “onesti” con la tradizione della Chiesa. Poi loro stessi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno le ordinazioni delle donne; ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro a una certa ortodossia e pensavano che il Concilio avesse sbagliato. Un altro gruppo se ne andò senza votare, zitti zitti, ma non vollero votare… Il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefebvre. Sempre c’è l’opzione scismatica nella Chiesa, sempre. È una delle opzioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c’è in gioco la salute spirituale di tanta gente. Che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino dello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, come è cominciato con tanti scismi, uno dietro l’altro, basta leggere la storia della Chiesa: ariani, gnostici, monofisiti...

Poi, mi viene da raccontare un aneddoto che ho detto qualche volta. È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. E quando nel Concilio di Efeso c’era la discussione sulla maternità divina di Maria, il popolo – questo è storico – stava all’ingresso della cattedrale quando i vescovi entravano per fare il concilio, stavano lì con dei bastoni, facevano vedere i bastoni e gridavano: “Madre di Dio! Madre di Dio!”, come a dire: se non fate questo vi aspettano… Il popolo di Dio aggiusta sempre le cose e aiuta. Uno scisma è sempre un distacco elitario provocato dall’ideologia staccata dalla dottrina. È un’ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca e diventa “dottrina” per un certo tempo. Per questo io prego che non ci siano degli scismi, ma non ho paura.

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