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venerdì 19 aprile 2024 | ore 12:49

Il Leviatano potrebbe tornare?

Rubrica 'Nostro Mondo' - Il Leviatano (da internet)

In questi anni, sono state numerose le leggi speciali varate per prevenire eventuali attacchi terroristici. Promulgate queste norme, la domanda che una parte dell’opinione pubblica si pone è la seguente: “Quanto siamo disposti a perdere della nostra libertà individuale per sentirci più sicuri?” La questione sembra contemporanea, ma non lo è e si presenta, quasi ciclicamente, in quei periodi storici caratterizzati da grandi cambiamenti politici e sociali.
Torniamo indietro nel tempo, nell’Inghilterra di metà ‘600, quando circola a Londra un libro intitolato Leviathan or the Matter, Forme, and Power of a Common-Wealth Ecclesiastical and Civil. Il suo autore, Thomas Hobbes, vive durante la rivoluzione inglese e il suo pensiero filosofico è influenzato dalla confusione che la guerra civile porta nel panorama istituzionale del suo paese.
Nel 1649 Carlo I è giustiziato. Ragionando con la mentalità odierna, non possiamo capire quanto sia stata traumatica l’esecuzione agli occhi degli inglesi: un re non è un personaggio completamente laico, bensì un perno dell’ordine terreno voluto da Dio e diversi rituali, ad esempio l’unzione che i sovrani ricevono al momento della loro incoronazione, avallano l’idea che il monarca rappresenti un’autorità sacra. Si consideri inoltre che dal 1534 i re d’Inghilterra possiedono il titolo di Capi supremi della Chiesa, attribuzione che dona un’aura quasi mistica alla loro figura. Non è ovviamente inconcepibile che un sovrano muoia in modo violento: la storia dei Plantageneti, dei Tudor e degli Stuart conta numerosi episodi sanguinari; in questi casi, però, la violenza è spesso circoscritta tra persone di pari rango, ad esempio una casata avversaria che rivendica il proprio diritto al trono o che si fa portavoce di un diffuso malessere quando un re viene meno ai suoi obblighi o tenta di aumentare i propri privilegi. Carlo I invece è il primo monarca in Europa a essere giudicato e condannato in nome della sovranità del popolo. L’episodio, clamoroso, è conseguenza dei sempre più aspri contrasti tra le istituzioni inglesi che durano sin dal regno di Giacomo I Stuart. Il suo successore Carlo I governa senza l’appoggio del Parlamento dal 1628 al 1640, anno in cui il re è costretto a convocare entrambe le Camere per ottenere i mezzi finanziari necessari per sedare una rivolta in Scozia. Il 3 novembre 1640 si apre a Westminster il Parlamento che smonta, nel giro di poco tempo, le basi su cui poggiano molte prerogative riservate alla Corona (sono soppressi i tribunali sottoposti alla diretta influenza del monarca e dichiarate illegali le imposte introdotte senza l’approvazione parlamentare). Quando lo Stuart decide di arrestare i capi dell’opposizione della Camera dei Comuni, lo scontro diventa aperto e sfocia nelle armi. Dopo le vittorie ottenute nel 1645 dall’esercito rivoluzionario, guidato da Oliver Cromwell, Carlo I spera, invano, di dividere i suoi avversari. Nonostante siano numerosi coloro, tra cui lo stesso Cromwell, favorevoli a un accordo con la monarchia, che salvaguardi però le conquiste ottenute, il comportamento altalenante dello Stuart porta al suo processo e alla successiva condanna. Dopo la morte del re, non c’è però uniformità di vedute sul nuovo assetto da dare al paese. Le maglie della censura si sono allentate, creando un clima di relativa libertà d’espressione che a sua volta favorisce il proliferare di gruppi religiosi e politici, alcuni anche impegnati nel perorare la causa di radicali riforme sociali.
Thomas Hobbes osserva queste vicende e, come molti spettatori di fatti rivoluzionari, coglie la profondità di quanto sta accadendo, ma non può prevederne gli esiti. Quello che nota è un flusso caotico di eventi, nel quale crollano i vecchi capisaldi senza che sia chiaro come sostituirli. Una cosa è certa nella mente di Hobbes: in mancanza di un forte potere pubblico, non può esserci una società. Un sistema di governo deve garantire la sicurezza e la possibilità di compiere quelle azioni che non sono impedite dalle leggi, baluardo per proteggere la pace. Chi detiene la sovranità (non delegabile, perché dividerla equivale a dissolverla) è l’unico depositario del potere legislativo. Se i sudditi conservassero anche solo una minima parte della loro autonomia, potrebbe tornare il “tutti contro tutti” che caratterizza la condizione naturale dell’uomo, quando cioè non ci sono quei vincoli che ne controllano il comportamento. Le persone infatti non cercano i propri simili per una connaturata predisposizione alla socialità, bensì per calcolo e interesse; in mancanza dell’autorità statale che eserciti la coercizione, o che ne incuta il timore, l’uomo potrebbe creare danni al prossimo, non perché intrinsecamente malvagio, piuttosto per la volontà di sopraffazione che lo caratterizza. Per tale ragione Hobbes sceglie, come figura esemplificativa dello stato assoluto, il Leviatano, quel mostro biblico, talmente potente da terrorizzare, che compare nel libro di Giobbe: senza la paura di una punizione, nessuno è in grado di rispettare le regole che dettano il buon andamento del vivere in una comunità. Stringendo tra loro un “contratto” per consegnare a un terzo soggetto l’assoluta podestà, gli uomini rinunciano volontariamente a ogni libertà che potrebbe condurre al disordine sociale. La teoria contrattualistica non è un’invenzione seicentesca, ma in precedenza è stata utilizzata per limitare il potere pubblico, non per ampliarne la capacità d’azione: le leggi consuetudinarie, che traggono la loro legittimità dalla tradizione e che hanno rappresentato i freni all’egemonia di un singolo ceto, possono essere mantenute- secondo Hobbes-, ma solo dopo aver ottenuto il consenso da parte del sovrano. L’obbedienza può venir meno solo nel caso in cui chi governa si indebolisce tanto da non poter più offrire ai suoi sottoposti la protezione necessaria per vivere in pace. L’eguaglianza di fronte alla legge e nell’ottenere incarichi pubblici, l’istruzione, l’assistenza verso chi non è in grado di assicurarsi da solo i mezzi di sussistenza, sono compiti del governo, non tanto perché moralmente “giusti” ma perché opportuni, essendo mezzi atti a proteggere la coesione all’interno di un paese.
Nell’anno in cui è stampato il Leviathan, Cromwell governa la Repubblica unita di Inghilterra, Scozia e Irlanda, che non sopravvive alla morte del suo fondatore. Hobbes smette di scrivere su argomenti politici, dato che il suo lavoro è riuscito a scontentare i sostenitori del parlamentarismo e persino i monarchici, poiché il filosofo sostiene l’assolutismo senza ricorrere all’origine divina del potere dei re. Concentrando il monopolio dell’uso della forza nelle mani del governo (peculiarità saliente dello Stato moderno), Hobbes enfatizza enormemente il ruolo di un regime politico che può sempre trasformarsi, se lasciato a briglia sciolta (eventualità che le Costituzioni moderne cercano di evitare), nel Leviatano, «(…) questo dio mortale, a cui noi dobbiamo, con l’aiuto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra protezione. Perché, forte del diritto di rappresentare ogni membro dello Stato, deriva da esso tanta potenza e forza che può, grazie al terrore che ispira, indirizzare la volontà di tutti verso la pace, all’interno, ed il reciproco aiuto contro i nemici, all’esterno».

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