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Guerra e pace. Dolore e meraviglia. Sono parole che paiono inconciliabili e invece, nella vita di Marco Rodari, in arte il ‘Claun Pimpa’, diventano un tutt’uno, un’esperienza vissuta sulla pelle e restituita ogni volta con un sorriso. Rodari ha 48 anni, vive a Leggiuno – piccolo paese affacciato sul lago Maggiore, in provincia di Varese – e da oltre quindici anni porta il suo naso rosso, i pantaloni rattoppati e la sua inseparabile valigia di giochi nei luoghi più duri del mondo: le zone di guerra. La sua storia comincia come tante altre, quasi in sordina, nelle stanze dell’oratorio: “Al mio paese ho iniziato a fare l’animatore da adolescente: lì ho scoperto che con i bambini me la cavavo, ero bravo a intrattenerli”. Poi l’università – Storia – e parallelamente la passione per l’animazione, che lo porta a scoprire la figura del clown. Le prime esperienze sono negli ospedali, con la clown-terapia: un naso rosso, qualche gioco di magia e la capacità di regalare attimi di leggerezza ai piccoli ricoverati. “Far ridere i bambini, soprattutto in quelle situazioni, è l’ultimo passo. Prima bisogna riuscire a portarli via per un attimo da ciò che stanno vivendo”. Da lì i viaggi si allargano: Romania, Africa, i luoghi più poveri del pianeta. Fino all’incontro decisivo con padre Jorge Hernandez, parroco argentino a Gaza, che lo invita a fermarsi qualche mese nel 2009. È lì che Marco diventa un “clown di guerra”, quasi per vocazione. Da quel momento il ‘Claun Pimpa’ non si è più fermato: Palestina, Siria, Iraq e, dal 2022, anche l’Ucraina. In ogni viaggio la stessa missione: donare sorrisi a chi è intrappolato nell’inferno. “Avrò passato 1000 giorni di spettacoli lì dentro e incontrato un milione di bambini. Dal 2009 al 2023 ho vissuto momenti con tutti i crimini possibili dell’umanità: si usa la scusa che si colpiscono i civili per sbaglio, ma non lo è mai, l’ho imparato in tanti anni e in tanti teatri di guerra. I civili, ma soprattutto i bambini, sono gli obiettivi primari”: sono parole che pesano come macigni. Rodari ha visto sulla propria pelle ciò che spesso arriva solo come notizia nei telegiornali: ospedali bombardati, città distrutte, interi popoli privati della normalità. “Tengo sempre il focus sul fatto che i bambini non sono più, se mai lo sono stati, danni collaterali. I bambini sono obiettivo perché essendo la cosa più preziosa per le popolazioni, se li vuoi terrorizzare e far scappare parti da loro, li uccidi, li affami. Danni collaterali sono i soldati ormai”. Eppure, nonostante il dolore, c’è sempre spazio per la meraviglia. “Con il tempo ho compreso: anche sotto le bombe, per un bambino si può arrivare a sorridere, e così diventa un segno di speranza che colpisce anche gli adulti”. Il clown diventa così non solo una figura di sollievo, ma anche un seme di pace: ridare stupore ai più piccoli significa ricordare che un futuro diverso è possibile. Rodari non nasconde il peso della paura, compagna di ogni viaggio: “Hai paura, devi avere paura, perché quando non l’hai sei troppo sconvolto. Non conta quanti giorni vivi, basta una notte e rimane per sempre. Sempre più spesso vedo persone che non hanno più nulla negli occhi, non riescono nemmeno ad aver paura. La mattina, in parrocchia (è tornato da pochi giorni dalla zona del Donbass), si prega insieme e i ragazzi sanno già che andranno o a morire o a uccidere. Il nuovo dramma, dall’Ucraina a Gaza sono i droni: un missile si può anche schivare ma con il costo di un missile ora mandano migliaia di droni, piccoli, precisi, silenziosi. Sono le nuove mine antiuomo. A Kiev una volta ero all’Ospedale pediatrico, i droni erano intorno prima di colpirci: e colpire un ospedale pediatrico vuol dire non avere più remore, essendoci i più piccoli, i più innocenti, voler far capire alla gente: se voglio ti colpisco, ovunque tu sia. I droni andrebbero banditi, come si è provato a bandire le mine anti uomo”. Eppure, continua a partire. Perché in ogni bambino che torna a sorridere, c’è una ragione in più per resistere. E il senso di tutto lo racchiude in una frase che sembra un manifesto: “Se dovessi definire un bambino: è quell’essere umano che ha la gioia stampata nel DNA. Anche quello che ha vissuto la tragedia più grande può tornare a sorridere, magari tramite la meraviglia. Più sono piccoli più può essere facile tentare di ridonargli un sorriso, stupirlo, dargli un attimo di pace, crescendo diventa invece sempre più difficile”. La sua associazione è ancora in contatto con Padre Romanelli a Gaza: “La scuola e la casa per bambini disabili sono state distrutte, ma il depuratore che abbiamo costruito opera ancora, garantendo un po’ di acqua”.
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