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Attualità, Inchieste

"Le vittime sono vittime. Sono tutti esseri umani"

Conflitto tra Israele e Palestina: l'intervista a Giammarco Sicuro, giornalista e inviato della Rai che lo scorso novembre è stato in Israele.

Il bilancio del conflitto in corso tra Israele e Palestina è ogni giorno più drammatico: 26 mila vittime, 10 mila dispersi, 62 mila feriti e 10 mila bambini uccisi negli ultimi cento giorni.
Esseri umani. Senza distinzione alcuna.
Abbiamo ascoltato la testimonianza di Giammarco Sicuro, giornalista inviato per la Rai che lo scorso novembre è stato in Israele. Una voce vera e attenta, che ha raccontato con professionalità e umanità ciò che ha vissuto in quei luoghi martoriati dal conflitto.

Ogni anno si celebra la Giornata della Memoria, perché il mondo non dimentichi e la storia sia maestra. Ma come si può esaltare il ricordo quando dall’altra parte del mondo si sta consumando una tragedia senza precedenti?
“Un equilibrio difficile. Abbiamo la necessità di coltivare la memoria come obbligo morale verso le nuove generazioni, mantenendo viva la fiamma del ricordo. Dall’altro lato però non bisogna dimenticare che ogni vittima deve essere protetta allo stesso modo e quello che sta succedendo a Gaza è una continua strage di civili indifesi. Dobbiamo tenere in piedi entrambe le cose.
Le vittime sono vittime da qualsiasi parte le guardiamo, e se ci concentrassimo meno sull’ideologia e più sul racconto di ciò che sta avvenendo sarebbe più semplice districarsi da certe strumentalizzazioni politiche.”

Il 26 gennaio la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha chiesto a Israele di fare tutto il possibile per “prevenire possibili atti genocidari” nella Striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari. Pare che il mondo stia trattando la vicenda con i guanti bianchi, senza intervenire in maniera decisiva. Perchè c’è questo freno?
“La sentenza, che di fatto apre ad un processo, è una decisione che è stata letta in diversi modi. Non è arrivato l’ordine ad un cessate il fuoco. Per i sostenitori dei palestinesi – volendo semplificare – è stato un atto di debolezza, per la controparte invece è stata una decisione che manifesta un sottile e nascosto antisemitismo perché di fatto, apre ad un processo. Io sono un cronista e da osservatore posso dire di vedere una sensibilità estrema da tutte le parti. Non appena si accenna l’argomento del conflitto in Medio Oriente c’è una immediata polarizzazione ed è quindi difficile capire dove si trova la verità. Qui entra in gioco il ruolo del giornalista che deve raccontare i fatti al meglio.”

Che impressione fa vedere come questa guerra sta entrando nelle viscere delle persone che vivono lì?
“E’ inquietante. Inquietante perché la paura se alimentata e non gestita sfocia nella necessità di autodifesa. Ed è esattamente quello che sta succedendo ora in Israele. Il boom dell’acquisto di armi da parte dei civili, che abbiamo raccontato mentre eravamo lì, le file fuori dalle armerie e i tanti corsi per imparare a sparare sono un segnale spaventoso. Avere un’arma in casa non è tranquillizzante.”

Hai percepito un sentimento ottimista nei confronti di una possibile soluzione?
“No. E credo che non siamo mai stati così lontani da qualsiasi prospettiva di accordo, di intesa e di pace. Parlando con le persone c’è molta frustrazione, si vive una sensazione di repressione totale. L’esercito israeliano controlla ogni spostamento e questo ovviamente porta ad un abbassamento del morale della popolazione e una preoccupazione verso il futuro. Non se ne vede una via d’uscita.
Dovrebbe partire un’iniziativa diversa sia a livello internazionale sia dai due paesi.”

Qual è stato il momento più difficile?
“Dal punto di vista pratico l’arrivo nella zona nord a confine con il Libano dove i bombardamenti sono davvero intensi. Quando suona l’allarme hai pochi secondi per rifugiarti nel bunker e questa ormai è la vita quotidiana in quelle zone. Dal punto di vista umano lo sgombero con demolizione di un insediamento palestinese in Cisgiordania. Ero lì quando le persone coinvolte, tra cui molti bambini, stavano raccogliendo le loro cose buttate per strada. Guardi questi esseri umani che non avevano più una casa e non capisci il perché. Non erano pericolosi membri di Hamas, ma uomini come tanti che abitavano quei luoghi da sempre.”

Una volta che le telecamere si spengono e poggi il microfono, l’uomo non il giornalista, come torna a casa?
“Si torna a pezzi emotivamente. Ma la cosa che fa più male è quando leggi o ascolti l’opinione di chi entra in merito di queste vicende senza aver mai approfondito l’argomento. Io stesso racconto in maniera prudente, consapevole che è una storia lunga e molto articolata. Cerco di fornire elementi sulla base di quello che vedo, senza lanciarmi in analisi geopolitiche. Poi accendi la televisione e ti accorgi che si da spazio a chi fa opinione e racconta realtà che non esistono. C’è un tentativo di polarizzare il racconto, semplificandolo troppo ed è la cosa più frustante. Si ascoltano talmente tante cose inesatte che generano odio e confusione in chi è a casa e per questo ti viene rammarico.”

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