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Over the Game

Ready player horror

La demonizzazione dei videogiochi attraverso il cinema dell’orrore. Cinque film che affrontano l’argomento videoludico tra sperimentazione e tematiche classiche del genere horror.

Il genere horror è molto vasto e variegato nel panorama del mainstream, soprattutto al cinema. Al pari della fantascienza e del fantasy, la narrativa dell’orrore riesce a muoversi e adattarsi alle situazioni e agli ambienti più disparati. Che sia a tema vampiri, licantropi, zombie, fantasmi, streghe o semplici assassini mascherati, l’horror riesce a toccare e trattare vari argomenti come: il sociale, l’economico, il politico, il religioso e il culturale, dando vita a generi e sottogeneri, che formano l’ossatura della narrativa fantastica mondiale. Ma cosa succede quando il cinema horror incontra i videogiochi? Sebbene i videogame a tema horror ammontino a un numero infinito di titoli, gli adattamenti cinematografici dei suddetti, si contano letteralmente sulle dita di una mano. In questo articolo, però, non parleremo degli adattamenti di ‘Resident evil’, ‘Silent Hill’ o dell’imminente ‘Five nights at Freddy’s’; parleremo invece di film horror che hanno come argomento centrale i videogiochi. Questo genere di film, fa parte del filone del così detto cyberhorror, un genere che sfrutta la paura dell’elettronica e del progresso tecnologico. Quello del videogioco maledetto non è un archetipo nuovo nel panorama dell’horror moderno; infatti nel 1983, il film antologico ‘Nightmares – incubi’ di Joseph Sargent, conteneva un episodio in cui un ragazzo affrontava un cabinato arcade, infestato da una presenza maligna. Il compito principale di queste pellicole è quello di demonizzare i videogiochi, specie quelli con contenuti violenti, macabri e osceni; al fine di sensibilizzare i giovani sui pericoli legati all’uso smodato e incontrollato di tali videogiochi. Il più delle volte, però, il messaggio non viene recepito, e contrariamente a quelle che erano le intenzioni iniziali, i giovani che vedono tali film, sono ancora più invogliati a giocare ai videogiochi contenenti tematiche macabre, violente e orrorifiche. Al giorno d’oggi, questo tipo di film, sono considerati come dei curiosi esperimenti, volti a sfruttare la paura verso la crescente industria videoludica, che veniva vista come un nuovo contenitore da cui estrarre le paure e i timori dei genitori, preoccupati per l’influenza che potevano avere queste nuove tecnologie sui loro figli. In questo articolo tratteremo cinque film del genere cyberhorror, a tema viedeoludico. Cinque pellicole sospese tra reale e virtuale, celluloide e pixels, tra voglia di sperimentare e bruschi inciampi in stereotipi classici del cinema horror che, nel tentativo di mettere paura ai giovani videogiocatori, riuscirono solo a strappare qualche risata e a rafforzare la passione delle nuove generazioni nei confronti dei videogiochi a sfondo horror.

Il demone delle galassie infernali
Il programmatore informatico Paul Bradford deve salvare la sua ragazza Gwen dalle grinfie del Dungeonmaster, un demone che lo sfida a superare sette terribili prove fra magia e tecnologia, in una dimensione al di là di ogni immaginazione. Correva l’anno 1984, quando il prolifico produttore Charles Band, decise di partecipare a un film collettivo, incentrato sul mondo dei videogiochi. Pieno di citazioni al mondo nerd, ‘Il demone delle galassie infernali’ (il cui titolo originale è ‘The doungeonmaster’), si presenta come l’adattamento di un videogioco del Commodor64, di stampo dark fantasy. La trama ricalca quella del videogioco ‘Ghost and Goblins’: il protagonista deve salvare la sua ragazza, rapita da un demone malvagio, superando prove e affrontando nemici sempre più forti attraverso sette livelli, aiutato da un computer da polso che fornisce tutte le informazioni di base per risolvere ogni schema del gioco. Nonostante l’idea di partenza e le buone intenzioni, il prodotto finale risulta pacchiano e sconclusionato; i sette registi (di cui fa parte lo stesso Band), faticano a dare coerenza ai vari segmenti che compongono la pellicola, riducendo il tutto a un confuso esercizio di stile e nulla più. Al giorno d’oggi, il film di Band e compagnia, è considerato un cult del cinema trash anni ottanta; certo, uno strano esperimento dagli esiti disastrosi, ma un buon prodotto d’intrattenimento che non è solo cyberhorror, ma anche sci-fi, dark fantasy e naturalmente arcade game old school di tutto rispetto.

Brainscan: il gioco della morte
Michael da bambino è stato vittima di un incidente nel quale ha visto la madre morire. Ora è un adolescente pieno di problemi che passa il tempo tra videogiochi splatter e film horror. Su una rivista scopre un nuovo rivoluzionario videogame chiamato Brainscan, in cui il giocatore deve uccidere una persona a caso senza lasciare indizi. È un’esperienza unica ma l’omicidio è avvenuto realmente. Michael capisce che Brainscan non è un semplice gioco e cerca in tutti i modi di smettere di partecipare, ma il malvagio Trickster (il demone padrone del gioco) non glielo permette. Piccolo divertissement d’altri tempi, ‘Brainscan: il gioco della morte’ di John Flynn, è un notevole esempio di cyberhorror targato anni novanta. Nonostante la trama banale e prevedibile, il regista e lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker (autore di ‘Seven’), confezionano un prodotto appassionante e veramente ben realizzato. Sebbene il messaggio antivideoludico sia forte e chiaro, il vero punto di forza del film non risiede in esso (né tanto meno nei personaggi o negli effetti speciali), ma nell’atmosfera angosciante che pervade la storia, paragonabile a quella di un film di Wes Craven o John Carpenter; il tutto condito da una colonna sonora che ricorda a tratti Ennio Morricone e tratti Angelo Badalamenti. L’altro elemento che rende il film appassionante è il suo antagonista principale: il demone Trickster, una sorta di folle incrocio fra Freddy Krueger e Beetlejuice in chiave punk-rock; un essere decisamente terrificante, soprattutto per l’aspetto gommoso e plasticoso, che lo fa sembrare una versione satanica di Max Headroom, aumentando così l’effetto di uncanny valley nello spettatore. Con le sue infinite citazioni pop e le sue meccaniche videoludiche che ricordano titoli come ‘Phantasmagoria’ e ‘Harvester’, il film di Flynn è un tentativo malriuscito di demonizzare i videogiochi, che però, grazie alla sua atmosfera opprimente e alla sua aura vintage, riesce a divertire e intrattenere, nonostante i suoi clice triti e ritriti.

St. John's Wort - Il fiore della vendetta
Nami, è una giovane game designer che ha creato un nuovo videogioco basato su immagini che ha sognato. Nami, viaggia verso una vecchia villa abbandonata, che ha ereditato dal padre, insieme ad uno dei produttori Kohei, suo ex fidanzato. Mentre esplorano la vecchia villa, Nami inizia ad avere delle visioni della sua infanzia che non ricordava, collegandoli alla casa in cui viveva il padre, un pittore dal passato misterioso. All’inizio del ventunesimo secolo, il mondo del cinema horror, venne scosso alle fondamenta da un nuovo genere proveniente dal sol levante, il così detto J-horror. A differenza di quelli occidentali, i film horror giapponesi sono famosi per le loro tematiche e la narrazione delle vicende, e tendono a concentrarsi su un horror di carattere psicologico, costruendo la tensione più su ciò che non viene mostrato. La caratteristica principale di questo tipo di film, è che la maggior parte di essi tende a demonizzare la tecnologia: videocassette maledette, televisori impazziti, strani suoni provenienti dal cellulare, fotografie e telecamere che riprendono presenze inquietanti e naturalmente videogiochi posseduti da forze ultraterrene. ‘St. John’s Wort’, che usci in pieno boom del J-horror, è un ulteriore passo oltre il confine tra cinema e videogiochi. Sebbene il film Ten Shimoyama non sia l’adattamento diretto di un videogioco, esso si presenta a tutti gli effetti come la trasposizione di un’avventura grafica a tema horror esplorativo. Il tentativo di mutare il linguaggio del videogame è esplicitato non solo dalla scelta di rendere protagonisti proprio dei creatori di videogiochi, ma anche da una rappresentazione grafica che riesce a chiudere magistralmente il circuito tra cinema e gioco horror. Si arriva al punto da prendere in prestito i filtri visuali che hanno reso celebre la nebbiosa città di Silent Hill, non senza affiancare suggestioni provenienti da altri titoli del genere come ‘Clock Tower’ o ‘Project zero’. L’altra particolarità che rende il film così accattivante, è il suo continuo oscillare tra mondo reale e virtuale; lo spettatore fatica a distinguere cosa sia reale e cosa invece faccia parte del gioco che stanno progettando i ragazzi, fino a un finale che lascia più dubbi che risposte.

Stay alive
Dopo la morte cruenta e inspiegabile di un loro amico, un gruppo di teenager entra in possesso di un videogioco horror, ibrido tra ‘Fatale frame’ e ‘Silent Hill’, ispirato alla vera storia di una nobildonna vissuta nel XVII secolo, sul quale sembra gravare una terribile maledizione. Chi vi gioca e vi muore infatti, rischia di fare la stessa fine anche nella realtà. Quando la maledizione palesa la sua esistenza, il gruppo di amici cerca di venire a capo del mistero, mettendo a repentaglio la propria vita. I videogiochi possono essere un ottimo passatempo e un luogo sicuro dove rifugiarsi dalla realtà. Ma cosa succede quando la realtà e la finzione si mischiano e il pericolo diventa tangibile o addirittura mortale? A questa domanda provò a rispondere il regista William Brent Bell nell'ormai lontano 2006, con un film che tentò di riscrivere le regole del genere, ma che si rivelò un insipido theen horror che strizzava l’occhio a film come ‘The ring’ e ‘Final destination’. Messo in scena il primo massacro e allestito il solito gruppetto di ragazzacci ben assortiti guidati naturalmente dal “protagonista con il trauma”, la pellicola invece di deviare dal percorso prestabilito per offrirci qualcosa di nuovo, rimane sul binario morto dell’ordinaria rutine; il regista non fa letteralmente niente per cercare di salvare il salvabile, rimanendo invischiato nei soliti clice che caratterizzano questo genere di film. Sotto certi aspetti, il film funzionerebbe meglio se fosse solo un videogioco; infatti sono molte le situazioni in cui le meccaniche cinematografiche cedono il passo a quelle videoludiche, rendendo le prime superflue e completamente inutili. Il vero pregio del film è forse quello di invogliare lo spettatore a giocare a un gioco inesistente; un gioco dove l’obbiettivo principale non è quello di svelare il mistero contenuto in esso (nel film l’origine del gioco rimane insoluta), non è sconfiggere il boss di fine gioco (il finale volutamente aperto suggerisce che il gioco non sia finito) e nemmeno riuscire a superare i drammi del passato; come in ogni survaival horror che si rispetti la trama è un semplice contorno, poiché l’obbiettivo principale di questi giochi è sopravvivere all’orrore contenuto in essi, perché è solo così che riusciremo ad andare avanti e completare il gioco. ‘Stay alive’, a parte qualche difetto, è un film che funziona, diverte e tiene un’ottima compagnia, nonostante sia l’ennesimo polpettone alla Wes Craven.

Choose or die
Nella speranza di vincere 100.000 dollari, due amici riavviano un videogioco degli anni Ottanta e vengono catapultati in un mondo surreale. Dopo una serie di situazioni terrificanti, i due si rendono conto che stanno giocando per sopravvivere. Sulla scia del grande revaival anni ottanta e riprendendo il clice del videogioco maledetto in chiave retro, il film d’esordio di Toby Meakins non aggiunge niente di nuovo a una storia che sembra un episodio della serie ‘Black Mirror’. Da una parte ‘Choose or die’, sembra un film horror anni Ottanta con i classici schemi ed intrecci in grado di risolversi e concludersi entro l’ora e mezza, dall’altra sembra l’adattamento di un cortometraggio horror che gira sul web, e forse è questo il vero elemento di disturbo dell’opera di Meakins, questa sua somiglianza con le migliaia di creepypasta che circolano in rete; del resto il prologo sembra proprio un cortometraggio autoconclusivo, che viene adattato in forma di film. L’altro elemento che stona con la trama in generale risiede nei due protagonisti principali, troppo stereotipati e poco affini all’empatia del pubblico. La protagonista è la solita ragazza emarginata che si divide tra la passione per l’informatica e dei lavori umili fatti per occuparsi della madre malata; a spalleggiarla troviamo il solito ragazzo nerd con cui condivide la stessa passione. Il panorama mainstream è ormai saturo di personaggi simili (specie negli horror), per tanto non stupisce la difficoltà dello spettatore nell’affezionarsi ai personaggi principali; ma il vero guaio è la totale assenza di chimica fra i due, nonostante si frequentino da anni. Sul lato videoludico, troviamo le meccaniche delle avventure testuali dei primi personal computer, dove il giocatore deve fare una scelta per proseguire nella storia; nel film questo meccanismo viene portato alle estreme conseguenze, con i protagonisti costretti a fare scelte che mettono in gioco la vita dei propri cari e delle persone che li circondano. Con scene al limite del body horror e qualche jumpscare ben piazzato, il film scorre senza troppe pretese e senza colpi di scena eclatanti, e a nulla serve la presenza di un mostro sacro come Robert Eglung (anche solo come voce all’interno del gioco) a salvare una pellicola che poteva fare la differenza tra cinema e videogioco, ma che risulta l'ennesimo esercizio di stile di un regista alle prime armi.

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