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Creditizio, Attualità

Congiuntura, crisi o declino?

Siamo tutti concordi nell’affermare che l’Italia sta vivendo, da troppi anni ormai, una situazione economica negativa. Ma la domanda è: come interpretarla? In termini congiunturali, di crisi o di declino?
La congiuntura è una fase naturale dello sviluppo, caratterizzata dall’alternanza di periodi recessivi a periodi espansivi: ogni shock negativo porta alla formazione di aspettative negative e da qui si passa al crollo della domanda interna e degli investimenti. Si entra, così, in una fase recessiva. Nel momento in cui si esauriscono gli effetti negativi dello shock, si formano aspettative positive, riprendono i consumi e gli investimenti e si entra in una fase espansiva. Negli anni del boom economico, il PIL è oscillato in seguito a trimestri di espansione e di recessione, ma sempre seguendo un trend crescente. Tuttavia, è doveroso sottolineare che, in quegli anni, l’Italia registrava tassi di crescita temporaneamente maggiori rispetto ai Paesi leader in seguito al processo in atto di catching up.
La crisi è un concetto che si misura in termini di anni e non più di trimestri. Essa risulta, dunque, un fenomeno più intenso rispetto alla congiuntura, ma che non mette in discussione il trend: è quanto accaduto, per esempio, con la doppia crisi petrolifera degli anni ’70 e con la conseguente ripresa negli anni ’80.
Il declino, invece, è rappresentativo di una situazione in cui il trend di lungo periodo non è più crescente, ma stagnante o, addirittura, negativo. Secondo gli economisti più pessimisti (o forse semplicemente realisti), la fase che il nostro Paese sta attraversando non può che essere diagnosticata come declino: il PIL reale pro-capite (PIL/popolazione) è in diminuzione dal 1995 e, del resto, non possiamo attenderci grandi tassi di crescita, essendo la natalità costantemente in calo. Non per niente, d’altronde, l’”Economist” definì l’Italia “il malato d’Europa”, a sostegno di una situazione di declino relativo, ossia di declino relativamente agli altri Paesi sviluppati. Ma allora perché i ristoranti sono sempre pieni, la gente non si fa mai mancare nulla e si preoccupa di possedere tutti i beni di lusso all’ultimo grido? Semplicemente perché sta attuando un processo di smoothing, ossia sta risparmiando di meno per consentire ai consumi di restare costanti. Ma per essere sempre all’ultima moda gli italiani non stanno facendo altro che consumare la ricchezza accumulata negli anni di catching up: una volta la ricchezza era sei volte superiore al PIL, ora è quattro volte superiore al PIL. Quello che noi percepiamo è, dunque, che la situazione non sia tragica, ma è solo un’illusione.
Inoltre, notiamo che sia la produttività del lavoro, definita come PIL per ora lavorata, sia la produttività totale dei fattori, definita come la crescita della produttività non spiegata dalla crescita degli input produttivi di lavoro e capitale, sono in calo ormai da troppi anni e il trend prospettico si conferma in diminuzione. La produttività predice la crescita di domani, di conseguenza risulta chiaramente che si parlerà, ormai, di decrescita.
Ancora, le spese in ricerca e sviluppo rapportate al PIL sono inferiori alla media europea, in entrambi i settori pubblico e privato. Gli economisti più ottimisti sostengono che, però, sia ovvio un indicatore così basso di ricerca e sviluppo, in quanto questa funzione è presente prevalentemente nelle imprese grandi, quando in Italia dominano imprese medio-piccole. Andiamo allora a vedere gli indicatori che rispecchiano meglio le caratteristiche del mercato italiano, caratterizzato da innovazione di processo: il numero di brevetti, gli investimenti in ICT (information and communication technology) e il numero di ricercatori confermano, però, che la situazione non è migliore, in quanto l’Italia si colloca sempre nelle ultime posizioni delle classifiche mondiali ed europee.

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