Legnano
Il discorso del sindaco di Legnano Lorenzo Radice per le celebrazioni della festa del 2 giugno.
Buongiorno a tutti e grazie di essere presenti a questa celebrazione, o meglio a questa Festa perché proprio questo è il 2 giugno, una festa, una vera festa di tutte e tutti gli italiani. Insieme con la Liberazione, che abbiamo festeggiato il 25 aprile, il 2 giugno è, infatti, fra le ricorrenze più importanti e decisive per la storia moderna del nostro Paese. È un momento di svolta dopo il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale.
Con il referendum che ha permesso agli italiani di scegliere la forma di Stato in cui volevano vivere, per la prima volta in una consultazione a livello nazionale, si realizza il suffragio universale. E questo significa che per la prima volta è riconosciuto il diritto di voto a tutti, anche alle donne, per la prima volta.
Il 2 giugno, quindi, è anche la Festa della Democrazia, perché attraverso il voto finalmente per tutte e tutti ha in sé quel principio fondamentale della Costituzione (che vedrà la luce poco meno di due anni dopo) sancito dall’articolo 3: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Il riconoscimento del diritto al voto a tutti è un passaggio chiave; è una condizione necessaria per realizzare la democrazia. È una condizione che non può mancare -voglio sottolinearlo-, ma è una condizione che non è sufficiente. Infatti, forse mai come in questi anni ci è chiaro come non basti la forma democratica dello Stato per parlare di una democrazia piena, come non basti la forma democratica per realizzare una società più giusta e più equa, che è poi la sostanza e il fine ultimo della democrazia.
Per questo, e a ragione, quando parliamo di democrazia parliamo di un’attuazione mai veramente finita. Perché la democrazia è un processo continuo, complesso e faticoso, e mai completamente realizzato. La democrazia è un cammino, un obiettivo cui tendere che non raggiungeremo mai una volta per tutte. È un valore da coltivare, da trasmettere, da arricchire in base ai tempi, alle situazioni e alle esigenze di società che cambiano. Ciò che non può però venir meno, affinché ci sia democrazia reale, è la partecipazione del demos, del popolo, della cittadinanza. Perché partecipare alla vita politica significa fare sentire la propria voce, significa dare il proprio contributo alla costruzione della cosa pubblica, significa realizzare il massimo pluralismo. E dico questo in un momento in cui, come purtroppo sappiamo bene, la partecipazione alle elezioni, a tutti i livelli, europeo, nazionale, regionale e comunale, segna i minimi storici, in molti casi scendendo sotto il 50%. Dicendo questo, non voglio certamente delegittimare le elezioni con una bassa affluenza di votanti, ma mi sento di poter dire tranquillamente: meno partecipazione significa meno democrazia.
E non posso fare a meno di collegare la storia con l’attualità, di accostare il referendum di 79 anni fa che ricordiamo oggi con quelli cui saremo chiamati alle urne nel prossimo fine settimana. Forse è il caso di ricordare che il 2 e il 3 giugno del 1946 l’affluenza raggiunse la percentuale dell’89,08% degli aventi diritto e che oggi più che del merito dei cinque quesiti referendari si parli del raggiungimento del quorum. Nella pressoché totale assenza di dibattito chi ha proposto i referendum e raccolto le firme invita a votare, chi è contro semplicemente tace e conta sull’astensione. Senza entrare nel merito dei cinque referendum -che non è il mio compito qui oggi- io dico che votare è un diritto che gli italiani hanno conquistato, ma ricordo anche quello che la nostra Costituzione dice all’articolo 48: “il suo esercizio è dovere civico”.
Per questo è molto grave che persone che rappresentano Istituzioni dello Stato facciano propaganda perché la gente stia a casa. Questo invito a non partecipare -per quanto sbagliato- può venire da segretari di partito, da influencer, da personaggi che orientano la società civile e la cultura del Paese… ma non da chi rappresenta lo Stato e le sue Istituzioni democratiche. Per questo io -con questa fascia tricolore indosso- oggi dico: votate! Fatelo come volete, ma votate! Discutiamo e confrontiamoci, potremo essere d’accordo o su fronti opposti, ma non dobbiamo mai chiamarci fuori da un diritto/dovere, quello di votare, conquistato grazie a chi ha lottato e, in tanti casi, è morto perché tutti potessimo godere di quegli strumenti che sono condizione per la libertà, l’eguaglianza e la giustizia.
E lo dico anche perché le materie dei cinque quesiti referendari non sono marginali o ininfluenti per la vita della nostra Repubblica. Quattro referendum sono sul lavoro, un tema così rilevante da essere in apertura della Costituzione: l’Italia Repubblica fondata sul lavoro, che riconosce il lavoro come diritto-dovere perché è attraverso esso che l’uomo può emanciparsi e realizzare le proprie aspirazioni di vita e concorrere “al progresso materiale o spirituale della società” (articolo 4). Quindi come si può, in un tempo caratterizzato da una forte componente di precariato, che registra un numero impressionante e inaccettabile di morti sul lavoro, ignorare quesiti che riguardano licenziamenti, lavoro subordinato e sicurezza? E ancora, come si può dire ignorate il quinto quesito, che affronta uno dei grandi temi dei nostri tempi? Parliamo di cittadinanza, e in particolare dei tempi in cui questa può essere richiesta. Un calcolo attendibile ha stimato in più di un milione 400mila le persone che, se fosse abrogata la legge attuale, diventerebbero italiane. Tolti i minori, sarebbe un allargamento della base elettorale di oltre un milione di persone che, dal prossimo anno, avrebbero diritto al voto. Persone che vivono in Italia e ormai sono italiani de facto da anni, ma che non hanno i nostri diritti. È un argomento su cui la si può pensare in modo diverso, ma che non si può ignorare: la società italiana è cambiata nella sua composizione e nelle sue dinamiche e le regole fissate anni fa, in condizioni molto diverse, non rispondono più alle esigenze che abbiamo oggi. Guardiamo il nostro campo: a Legnano gli stranieri da anni sono quasi il 14% dei residenti. Le classi delle nostre scuole sono assolutamente multietniche: quei bambini parlano, sognano, e respirano italiano ogni giorno della loro esistenza. Eppure noi continuiamo a dire: non siete come noi!
Questa ovviamente è la mia conclusione e il mio punto di vista: ognuno può pensarla come crede sulla necessità o meno di questa modifica; ma non si può dire che questo non sia un tema di grande attualità e sofferenza sociale, poiché riguarda la vita di milioni di persone. Siamo quindi chiamati a dire la nostra per dare a chi vive e lavora da tempo sul territorio italiano quella pari dignità sociale ed eguaglianza di cui parla l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Piero Calamandrei, in un celebre discorso del 1955 sulla Costituzione, disse: «Vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo …».
E allora diamoci da fare, ognuno di noi, nella sua quotidianità, per contribuire a far vivere e ad attuare pienamente la nostra magnifica Costituzione e, con questo impegno, a battere l’indifferenza. Ricordiamoci quello che scrisse la preside di un liceo fiorentino dopo le violenze subite da due studenti da parte di sei ragazzi appartenenti a un’organizzazione di estrema destra: “Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a se stessa da passanti indifferenti”. Questa è la lezione che ci arriva dalla Storia, dalla nostra Storia: non dobbiamo essere indifferenti. Quello che si decide, anche se non mi tocca direttamente, mi riguarda come persona che vive in una comunità, che è parte di un grande Paese e non è chiusa e limitata al proprio io.
Quindi: fatelo come volete, ma partecipate!
Viva il 2 giugno, viva la Repubblica e viva la nostra Costituzione.